sabato 19 luglio 2014

Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (1999)



Dimenticato il Razzie Award per l’interpretazione di Mary Corleone (da vedere e rivedere direbbe Lorelai Gilmore) Sofia Coppola ripone le velleità attoriali (non prima di un’incursione nel meraviglioso video dei Chemical Brothers Elektrobank) per dedicarsi alla regia cinematografica. Il suo primo lungometraggio - oggi assunto a cult assoluto e paradigma principe del cinema indipendente - è Il giardino delle vergini suicide.
Sofia muove dal romanzo di Jeffrey Eugenides Le vergini suicide, per iniziare a lavorare su temi e stilemi che connoteranno tutto il suo cinema: le energie giovanili, imprigionate in sovrastrutture sociali (qui la suburbia americana post-Vietnam) e per questo accresciute in creatività e irresistibile appeal, lo sguardo vampirizzante delle convenzioni, lo spleen venefico della vita quotidiana. A rendere però Il giardino delle vergini suicide una visione unica, inafferrabile e pressoché irripetibile è la naturalezza, la disinvoltura (per me il vero differenziale) e il candore spregiudicato con cui Sofia affronta la tragedia delle sorelle Lisbon. Elegante, scarno, simmetrico, lo sguardo della camera si posa sulle ectoplasmatiche sorelle imprigionate in una villetta unifamiliare senza alcuna sordida o voyeuristica attrazione. La fotografia sapida nelle scene in cui l’immaginazione dei ragazzi che tentano di raggiungere le sorelle Lisbon si libera sui ricordi racchiusi nel diario di Cecilia (tredici anni, «la prima a spargere il veleno nell’aria») diviene asciutta e piatta negli interni governati dallo sguardo della signora Lisbon, in una fenomenologia del piano di sopra, con i suoi segreti e tesori: i tampax nello stipetto del bagno, il prete che non riesce a sostenere la visione delle ragazze stese insieme sul pavimento della loro camera, i dialoghi telefonici attraverso brani musicali coi ragazzi.

Per il ruolo della mater lacrimarum suburbana Sofia chiama Kathleen Turner, già «serial mom» per John Waters ne La signora ammazzatutti. La signora Lisbon, figura monolitica e imperscrutabile nel romanzo di Eugenides, è qui ritratta con poche sapide pennellate che ne rendono la personalità nel migliore dei modi: la vediamo chiacchierare con Cecilia in cucina della rana ridibunda aggiunta alle specie a rischio e poi con occhi bassi e labbra sottili ordinare a Lux di bruciare tutti i suoi dischi rock nel caminetto. Nella zona suburbana (lo celebrerà anni dopo Marc Cherry con Desperate Housewives) sono le donne a governare gli eventi e gli uomini non possono che essere degli accessori, ecco quindi la fragile appendice della signora Lisbon: il marito Ronald, mite professore di matematica travolto dalla tragedia, interpretato con grazia da James Woods. Intorno a loro un vicinato camp che nell’obiettivo della camera di Sofia diviene un inno al minimalismo morale, con quell’arma vile che è l’impersonale «ci si chiede sempre se ci fosse qualcosa che si potesse fare» e con la rapidità con cui, epurati i Lisbon, ritorna «al tennis e ai cocktail in barca». 

A completare la visione de Il giardino delle vergini suicide Sofia chiama Giovanni Ribisi per dar voce al malinconico narratore (awwwness totale), la sua musa e alter-ego Kirsten Dunst nel ruolo della panica Lux, Danny DeVito nel ruolo dello psicanalista Horniker, un efebico Josh Hartnett nei panni del dinoccolato asshole Trip Fontaine e gli Air a produrre uno dei più calzanti commenti musicali mai concepiti per una pellicola.

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