domenica 3 novembre 2013

Lost In Translation di Sofia Coppola (2003)

OK, dichiariamolo subito: amo Sofia Coppola. Amo il suo stile, i suoi immaginari, la regia, la cura dei dettagli e le straordinarie colonne sonore.
Oggi provo a mettermi nei miei panni, in quel preciso momento in cui qualcuno mi chiede «cosa ci trovo di bello in Sofia Coppola». Mi sono accorto che spesso tiro fuori per primo Lost in translation. Mi sembra contenga, nell'equilibrio più felice, tutte le caratteristiche, gli stilemi, le peculiarità, di un film «di Sofia Coppola»: le solitudini sospese e sovrastate da un contesto che sta per carpirle per sempre, il confronto con realtà umane lontane da sé, una narrazione che rifugge dalle classiche funzioni narrative del racconto moderno, che non ha nemmeno le caratteristiche frante e sincopate del postmoderno, ma che si basa sul rapporto sovrastante del contesto sull'umano, con l’accompagnamento di colonne sonore stra-tos-fe-ri-che.
La finitezza dei personaggi di Sofia non ha mai nulla di drammatico o tragico. Si pensi agli splendidi protagonisti di Lost in translation: Charlotte (Scarlett Johansson), neo-laureata, segue il marito, importante fotografo, a Tokyo, vivendo nella sua scia, dietro le sue spalle, senza nemmeno vedere i suoi flash e Bob (Bill Murray), attore trascinato da impegni commerciali a Tokyo per girare uno spot televisivo per un whisky dal sapore occidentale. Bob e Charlotte, al momento in cui si incontrano nel bar dell’albergo, stanno per essere sopraffatti dalla vacuità delle proprie vite: Charlotte da una solitudine senza spiragli, la vediamo osservare la metropoli stendersi sotto le enormi finestre della sua camera, muoversi per le vie delle città giapponesi di Tokyo e Kyoto, osservare tutto, guardando a destra e sinistra, col mento in su e con le mani in tasca. Bob segue i suoi impegni giapponesi con lo stesso atteggiamento, gira il suo spot con un regista giapponese, è ospite di uno strampalato programma televisivo (che dialoga con la Notte dei Telegatti di Somewhere), sorride gentilmente e segue serafico la delegazione che organizza la sua vita a Tokyo. Il grande albergo che li ospita e li scherma, sospendendoli in una realtà simile a quella creata da Murakami nel suo Dance Dance Dance, è anche teatro del loro primo incontro. Bob e Charlotte, due realtà sospese fra gli ambienti lussuosi e artificiali dell’albergo, iniziano a condividere a muoversi al di fuori, nella metropoli. La bolla emozionale e fisica che li ingloba e trascina per locali a Tokyo, di nuovo al bar dell’albergo, di corsa fra corridoi affollati da pachinko, è destinata a sdoppiarsi nuovamente, forse a scoppiare. Non prima dell’arrivo di un finale indimenticabile, sulle note di Just like honey dei The Jesus and Mary Chain, con gli occhi arrossati di Scarlett, le sue palpebre nel fremito, la spalla di Bill e la sua espressione finalmente compita.


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