mercoledì 25 marzo 2015

Gummo di Harmony Korine: perché tornare a Xenia


Benvenuti a Xenia, Ohio, qui l’arrivo di un uragano ha portato la comunità in un altro mondo (specie i bambini), ma non del tipo che chiamereste «meraviglioso» come quello di Oz. La piccola Dorothy Gale, alla fine della pellicola di Fleming, ripeteva come un mantra che «nessun posto è come casa mia», ma questo i piccoli, disturbati, abitanti di Gummo lo sanno già, passategli piuttosto quel sacchetto di colla da carpentiere da sniffare.
È incredibile come il genio di Harmony Korine già nel 1997 (se non prima, con la sceneggiatura di Kids) possedesse la capacità di ribaltare il plastico e consolatorio immaginario americano. Già, perché che cos’è Gummo (primo manifesto freak della contemporaneità) se non uno sguardo d’affaccio nel pozzo dietro la fattoria di Dorothy Gale in Kansas? Uno sguardo che può portarvi alla follia o condannarvi per sempre a vivere fra le mefistofeliche grinfie di una realtà dove i il disagio si coniuga all’innocenza e alla violenza, dove pure la natura ferina è andata alla deriva consegnando alla vista dello spettatore un’umanità vinta e ignara, in cui il male ha perduto il suo termine di paragone o forse non l’ha mai avuto. 
 
Alla sua uscita molti hanno letto il film come una versione contemporanea di Freaks di Tod Browning, in realtà con Gummo Harmony Korine ci fornisce la migliore delle linee di continuità che muove dall’opera di Lyman Frank Baum verso la scomparsa dell’umanità e quindi di ogni sua espressione, artistica compresa. Per farlo Korine si serve dei corpi dei suoi giovanissimi protagonisti, corpi che s’incastonano in un rosario mefistofelico di storie raccontate oralmente. 

In Gummo Harmony Korine, memore della lezione di Kenneth Anger e John Waters, muove attraverso un tappeto musicale che avvolge e strania, sublima la follia e la paura, arrivando a deflagrare fra le maglie della narrazione non-convenzionale: il metal (black e death in particolare) accanto a Roy Orbison e ancora, il grindcore, Madonna (Like a prayer, ovviamente), Bach e il power violence.
Se volete sapere di chi sono figlie le eroine di Spring Breakers guardate al terrorizzato Tummler, o al piccolo e weirdissimo Solomon (la cui voce strascicata è in parte narrante), alla loro flânerie nei territori devastati e vili di Xenia, guardate alla bellezza disturbante di Dot (Chloë Sevigny, qui anche in veste di costumista), o a quella tutelare del Bunny Boy. 

In Gummo la visione di Korine era già netta e demistificante. Ci aveva avvertito: il male è tra noi, il tornado è passato, e nessuno di noi poveri umanotteri - felici di essere sopravvissuti e pruriginosi come non mai – è più in grado di riconoscerlo, figuriamoci discernerlo. 

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