giovedì 5 marzo 2015

Il Gotico Americano secondo Park Chan-Wook: Stoker (2013)



Il Gotico Americano vive una nuova stagione di orrori consumati al sole del sud.
Oggi, che la fuga dalla phoniness - agognata da Holden e dalla nutrita fauna beat - è tornata a essere un bisogno primario, artisti, scrittori e cineasti da tutto il mondo sognano di salire sulla zattera di Huckleberry Finn e scivolare sulle nere acque del Mississippi per scrutare la fitta boscaglia che lo costeggia, riconoscere gli edifici in stile Carpenter Gothic imbiancati di fresco che di tanto in tanto occhieggiano sulle colline, alla ricerca dell’origine del male.
Non ci stupiamo di trovare accanto al sorriso sardonico della Gillian Flynn de L’amore bugiardo lo sguardo pacioso e dolce del regista sudcoreano Park Chan-Wook, intento a soppesare con lo sguardo la qualità di una tenuta in Tennessee, un terreno ben fertilizzato in cui coltivare uno degli incubi contemporanei più agghiaccianti, umbratili e sensuali: Stoker. Il film, girato in lingua inglese, è stato realizzato sulla splendida sceneggiatura scritta da Wentworth Miller (se guardate bene su quella zattera, c’è anche lui, camuffato come un novello Tom Sawyer), che pare abbia persino scritto un prequel intitolato Lo zio Charlie, incluso nella «Black List» di Hollywood, la lista delle migliori sceneggiature non prodotte.
Stoker è un meraviglioso racconto gotico in cui il «seme del male» germoglia il giorno del funerale di un capofamiglia, l’amato Richard Stoker (Dermot Mulroney). Mentre il sole del Tennessee illumina il legno prezioso della bara, la radura avvolta dalla boscaglia smeraldina e le eleganti gramaglie della vedova e dell’unica figlia del caro estinto, India (Mia Wasikowska), assistiamo al prepotente insorgere di fantasmi privati. Fantasmi che nel caso specifico hanno il sorriso sornione e lo sguardo rotondo e raggelante di Matthew Goode.

India alla ricerca della visione d'insieme.
India, è una creatura “altra”, è la figlia nata da Holden Caulfield e Rhoda Penmark, cresciuta cacciando fra i folti e pervasivi boschi del sud. In lei è amplificata la percezione sensoriale del reale e nel giorno del suo diciottesimo compleanno (nonché data della morte del padre) sente risvegliarsi una naturale, atavica e inconscia forma di appetito ferino. Le soluzioni registiche di grande bellezza che rappresentano il risveglio di India all’interno delle nuove dinamiche familiari – sensuali, sussurrate e rigorosamente osservate di sottecchi – sono elaborate da Park Chan-Wook con maestria e leggerezza. Un campo che si allarga, rivelando gradualmente l’orrore attraverso immagini meravigliose e memorabili. 

Il palcoscenico dove si svolge la vicenda è quello lasciato vuoto da Tennessee Williams (non a caso autore letto avidamente dalla protagonista Mia Wasikowska durante le riprese): una magione nel sud, rappresentata attraverso eleganti soluzioni scenografiche, in cui i tre protagonisti, l’enigmatico zio Charlie di Matthew Goode, la giovane eroina gotica India e la dama del sud, elegante e patetica, Evelyn Stoker (Nicole Kidman, fermamente voluta nel film da Park Chan-Wook), mettono in scena i principali fantasmi delle nevrosi contemporanee. È bello riconoscere, mentre scivolano per le stanze di casa Stoker, gli ectoplasmi di Lolita, Espiazione e Alice nel paese delle meraviglie mentre fuori dalla magione si corrompe in un morso la fiaba teen (che ritroveremo centrale in Horns). Tutto è poi ammantato da una cupa e tragica attitudine noir che non può che ricordarci Welles, Wilder e Mankiewicz. 

Nella continua e sterile dissimulazione delle paure e delle nevrosi familiari India sente rafforzarsi l’idea che il passato debba essere scavato, alla ricerca delle responsabilità di ognuno. Cresce in lei il bisogno che sogni e miti siano divelti e messi a nudo senza compassione ma con ferina e letale attenzione. 

La creatura che sorriderà in camera nel finale, con la chiusura del cerchio - aperto nelle inquadrature iniziali sul campo di granturco - potrà pure sembrarvi sovrannaturale, ma è un’impressione superficiale, destinata a durare poco. La riconosciamo, invece, come la visione d’insieme che andavamo cercando, il campo che finalmente si mostra per intero dopo che abbiamo imparato a riconoscerne ogni particolare. Come sussurra India «Non sono fatta solo di me stessa. Indosso la cintura di mio padre, stretta sulla camicia di mia madre. E le scarpe di mio zio. Questa sono io. Proprio come un fiore non sceglie il proprio colore noi non siamo responsabili di ciò che diventiamo. Solo dopo averlo realizzato saremo liberi. E diventare adulti significa essere liberi». 


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