domenica 27 luglio 2014

Femina ridens di Piero Schivazappa (1969)



C’è stato un cinema italiano in cui ricchezza formale, ricerca e godibilità sapevano coniugarsi perfettamente, incarnandosi, di volta in volta, in pellicole originali, la cui ambizione raggiungeva ogni obiettivo prefissato. Tra questi oggetti cinematografici merita più di una menzione Femina ridens, esordio alla regia di Pietro Schivazappa nel 1969. La pellicola è deliziosamente influenzata dalle «filosofie della crisi» di primo Novecento, in particolar modo dall’esistenzialismo di Sartre e dall’inettitudine alla modernità mutuata dall’opera di Italo Svevo. I due protagonisti, interpretati da Philippe Leroy e Dagmar Lassander, sono attori – nell’accezione sociologica del termine – di un esperimento situazionista, un «gioco inscenato», in cui la rappresentazione del masochismo e della prevaricazione dell’uomo sulla donna avviene a metà tra l’avanguardia artistica, il cronachismo più sanguinoso e l’analisi accademica.
Con una struttura circolare, Femina Ridens imprigiona entrambi i suoi protagonisti in uno spazio temporale libero dal lavoro – che impegna ugualmente uomo e donna e che li mette in gioco (di potere, of course) per opinioni e mansioni – in cui la natura umana, nevrotica, inetta, sostanzialmente in crisi, è liberata improvvisamente, in seguito a un istinto ferino che supera l’ordinarietà del seriale alla ricerca dell’imprevisto e del naturale, in una modernità totalmente artificiale. Ecco che l’imprenditore e filantropo Sayer (Leroy) prova a seguire le orme del divin Marchese, dimenticando di essere uomo del Novecento e quindi irrimediabilmente «in crisi», inetto, incapace di abbandonare la sterile e autoreferenziale rappresentazione di se stesso per affrontare le insidie della natura, fino allora scientemente negata. Tutto il rosario di torture e sevizie S&M cui Sayer sottopone Mary (Lassander) non sono che l’affermazione della propria sconfitta, sia fisica sia intellettuale, nei confronti della donna. Donna che si vuole soverchiata, sottomessa e umiliata ma che già nella condizione di vittima dimostra la superiorità tanto avversata da Sayer.
Schivazappa realizza la sua visione - optical perdinci! Siamo nei 60s – con fare situazionista a partire dall’appartamento-prigione di Sayer, proiezione mentale della sua condizione e costruito secondo una visione modernista in cui s’incontrano citazioni dell’art group Plexus e la serialità “altra” di Giuseppe Capogrossi. Una costruzione-rappresentazione che vede il suo culmine nella gigantesca scultura con la vagina dentata, omaggio all’opera di Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely e Per Olof Ultvedt: Hon/Elle. Visione che continuerà a incarnarsi tra una sortita panica alla Blow Up e quella in un castello medievale, fino alla karmica agnizione finale.

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