domenica 29 settembre 2013

L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956)

«Stiamo perdendo tutti la nostra umanità, poco a poco: che succeda di colpo da un giorno all’altro, fa poca differenza». 

Anticipatorio, cellula totipotente della cultura popolare, modello, immaginario, riflessione umana (lontana da qualsiasi lettura politica, checché ne dicano le prime pagine scritte alla sua uscita), tutto questo è L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956). Chi non ricorda l’arrivo silente dei replicanti alieni nella città di Santa Mira? Simulacri in carne, ossa e tegumento. Come accorgersi dell’invasione se le copie non-umane sono perfettamente identiche allo stampo cui si sostituiscono? Grazie a un marker prezioso: l’assenza di alcun moto dell’animo. Un’intera gamma emozionale totalmente aliena ai replicanti. Ecco che, allora, è l’umanità dell’osservatore a fare la differenza. Inizialmente ad accorgersi delle sostituzioni saranno gli individui che possiedono la più spiccata delle sensibilità (come i bambini) poi però? È possibile fermare un’invasione così silenziosa e sistematica?
La forza de L’invasione degli ultracorpi sta nel suo essere oggetto “altro” rispetto al mainstream cinematografico, quello che l’ha reso immortale è la forza dell’idea e la sua messa in scena claustrofobica. In una contemporaneità in cui tutto è rapido e affidabile con quale sguardo possiamo discernerne e indagare il reale? Non a caso L’invasione degli ultracorpi è tra i più amati dal personaggio di X-Files, Fox Mulder. Non c’è bisogno di dire quanto sia la serie sia il personaggio paghino debito al film di Don Siegel. Non sono gli unici. La pellicola, girata con un budget ridotto e scritto con la revisione di Sam Peckinpah, nonostante il finale posticcio voluto dalla produzione è diventato una pietra miliare nel tornado caleidoscopico della cultura popolare, influenzandola sotto diversi punti di vista: la tensione creata senza uso di effetti speciali, l’idea dell’invasione di una cittadina isolata, la replicazione aliena.

sabato 28 settembre 2013

Metti una sera a casa di Mamma Italia: Gran Bollito di Mauro Bolognini (1977)

Metti una bella cucina. Bella-bella eh, spaziosa, con tutto a portata di mano! Al centro della cucina un bel tavolo di legno, di quelli solidi e una lampada con carrucola che si può regolare per lavorare con la migliore delle illuminazioni. È questo l’opistodomo allestito da Mauro Bolognini per la sua Leonarda Cianciulli. Un luogo mistico, in cui superstizione, rituale e archetipi simbolici si lavano insieme nel sangue per offrirsi sottoforma di manicaretti e doni. Gran bollito di Mauro Bolognini (1977) è tra le pellicole che meglio incarnano quel connubio tra realtà sociale, surrealtà e attitudine gotica che è punto di forza di tanto cinema italiano.
Mauro Bolognini mette al centro della sua tragedia (la nota vicenda della saponificatrice di Correggio, Leonarda Cianciulli) una Shelley Winters, stupenda e agghiacciante «madre Italia», allegoria mortuale di quell'attaccamento ai propri figli tutto italiano, una follia cieca che pur di impedire il distacco muove verso i territori della follia più bieca e assassina. La Leonarda di Shelley Winters è di più, è una megera, una maga dagli oscuri appetiti e rituali, una strega che dal sud primigenio porta le sue doti divinatorie e la sua magia nera nel cuore del «continente», nella provincia emiliana, conquistando le simpatie di un gruppo di «amiche», tutte accomunate da una fragilità femminile che solo un trio di attori come Renato Pozzetto, Max von Sydow e Alberto Lionello poteva incarnare con tanta finezza e precisione. Il film, speculare rispetto a sé stesso, vede i tre attori interpretare, oltre alla parte femminile, anche una parte maschile in un gioco identitario che è anche di Leonarda. Quest’ultima è spinta, obbligata, dall'irrefrenabile follia superstiziosa che desidera dividere suo figliolo Michele (Antonio Marsina) dalla bella Sandra (Laura Antonelli) per tenerlo sempre con sé.

giovedì 19 settembre 2013

Milano Film Festival 2013: cosa è stato

di Laura Vayola

Si è appena conclusa la diciottesima edizione del Milano Film Festival.
Un’edizione molto speciale perché ha segnato la raggiunta “maturità” della manifestazione ma anche una tappa fondamentale nell'evoluzione della stessa.
Milano Film Festival è sempre stato fucina e osservatorio per talenti più o meno conosciuti, tappa fondamentale per appassionati e neofiti del cinema ma soprattutto corsia preferenziale per i giovani cineasti di tutto il mondo. Anche quest’anno il concorso ha visto protagonisti undici lungometraggi e ben cinquanta cortometraggi provenienti da ogni angolo del globo.
Tra i più significativi sono sicuramente da segnalare Les Rencontres D’Après Midi (vincitore nella sezione lungometraggi), esordio alla regia di Yann Gonzales (ex M83) tra fiaba kitsch, immaginario surrealista e allusioni porno-soft e Ilo Ilo (Anthony Chen/Singapore/2013, Camera d’Or a Cannes) melò familiare delicato e toccante, sullo sfondo di una Singapore in piena crisi economica.
La selezione cortometraggi ha lasciato molto spazio a forme autoriali ibride, al mash-up tra animazione e narrazione cinematografica classica dagli esiti inaspettati, come nel brillante Fatigués d’etre beaux (Anne-Laure Daffis, Léo Marchand/France/2012), western tra tinte oniriche e sfide dell’assurdo. Da segnale anche Pequeno bloque de cemento con pelo alborotado conteniendo el mar (Jorge Lopez Navarrete/Spain/2013), vincitore del premio come miglior film, una poetica storia di libertà che rifugge la prigione delle “categorie”.
Ma la programmazione del festival, come sempre ben diversificata, non ha trascurato l’animazione, la forma documentaristica, gli incontri tra arte e cinema, i focus d’autore e la musica, con un’ampia rassegna di undici artisti italiani e non.
La maratona d’animazione, uno degli appuntamenti fondamentali del Milano Film Festival, ha registrato come sempre una grandissima partecipazione da parte del pubblico, accorso numeroso alla proiezione di più di quaranta cortometraggi variegatissimi nelle soluzioni tecniche e nei linguaggi espressivi, dalla stop motion alla clay motion, dalla 2D alla silhouette.
Piccoli gioiellini come The animation of a men (Amanda Nedermeijer/Netherlands/2012), Fear of flying (Conor Finnegan/Ireland/2012) o Carn (Jeff Le Bars/France/2012) si sono susseguiti durante la lunga maratona, fornendoci una vastissima gamma di soluzioni estetiche, di soggetti narrativi, di studio volto alla sperimentazione.
Con la sezione «Colpe di Stato» ci siamo addentrati nel terreno delle “verità nascoste”, attraverso nove documentari tra cui segnalerei il crudissimo Camp 14 – Total Control Zone (Marc Wiese/Germany/2012), un vero atto d’accusa contro i campi di prigionia in Corea del Nord e The act of killing (Joshua Oppenheimer/Denmark, Norway, UK/2012) incentrato sullo sterminio di oltre mezzo milione di indonesiani da parte dei famosi “squadroni della morte”.
Non è mancato lo spazio per lungometraggi Outsiders, storie di personaggi accomunati dal un comune senso di estraneità, per l’appartenenza ad una comunità di emarginati, dalla lontananza, dall'esclusione. Pellicole come Rent a family Inc. (Kaspar Astrup Schoder/Denmark/2012), Lunarcy (Simon Ennis/Canada/2012) o 12 o’ Clock Boys (Lofty Nathan/USA/2013) disegnano, attraverso le immagini, la perenne insoddisfazione appartenente al genere umano, la voglia, impossibile da soddisfare, di far parte di un “qualcosa”.
Il consueto focus autoriale quest’anno ha omaggiato il lavoro del cineasta francese Sylvain George, attraverso la proiezione di tutti i suoi cortometraggi e di Les eclats e Vers Madrid, due tra i suoi lungometraggi che si propongono di scardinare le consuete modalità di comunicazione per lasciare spazio all'espressività e all'eloquenza dell’immagine.
La sperimentazione come chiave di volta dell’intera manifestazione, come nella sezione «Vernixage» che interroga le vaste connessioni che intercorrono tra arte e cinema attraverso il lavoro di tre differenti autori e dei loro lavori. Frozen flames (Luca Trevisani/Italy/2013), Negus – Echoes Chamber (Invernomuto/Italy/2013) e Now showing: Austerity Measures (Joao Laia e Andrey Shental/UK/2012) sono testimonianza di un cinema volto alla sperimentazione di profili sempre nuovi e nel contempo di una continua ricerca di connessione verso forme artistiche delle origini.

domenica 15 settembre 2013

District 9 di Neill Blomkamp (2009)


Amo quando prendono forma pellicole come District 9, primo lungometraggio di Neill Blomkamp (oggi nei cinema con Elysium) che trasla in un contesto sci-fi il tema dell’apartheid, del razzismo e della xenofobia.
Il lavoro di Blomkamp nel creare la sua storia mutante cominciò qualche anno prima, con la produzione di un cortometraggio di soli sei minuti Alive in Joburg, dal quale grazie all'incontro con Peter Jackson si svilupperà District 9: è il 1982 e un’enorme astronave si è posizionata sulla città di Johannesburg senza dare alcun segno di vita. La motivazione è presto scoperta: gli alieni ribattezzati in maniera spregiativa dai terresti "gamberoni" hanno perso il modulo di comando dell’astronave e non riescono a ripartire. Allo sbando, sporchi, spossati e denutriti gli alieni vengono condotti in salvo sulla terraferma. Negli anni la convivenza fra questi e gli umani si fa sempre più difficile fino a quando i "gamberoni" vengono segregati nel District 9 del titolo (che richiama il reale District Six di Città del Capo) in regime di apartheid.
Dopo varie contestazioni da parte degli abitanti di Johannesburg per via delle continue rivolte degli esseri alieni che non accettano di essere rinchiusi nello spazio a loro riservato, il governo sudafricano decide di spostarli in una zona franca a 240 km dalla metropoli: un vero e proprio campo di concentramento. Da questo momento partono le vicende di Wikus Van De Merwe funzionario della multinazionale NMU addetta al trasporto degli alieni nella nuova zona franca. Il nostro è un omuncolo mellifluo e povero di spirito, davvero poco umano nel confrontarsi con la comunità aliena da lui trattata in maniera spregiativa e derisoria. Come ne La mosca di David Cronenberg sarà un incidente a squarciare la vicenda, ribaltandone i connotati. Un processo che trasformerà gradualmente Wikus in uno degli alieni.

sabato 14 settembre 2013

Jodie Foster looking pissed o Elysium di Neill Blomkamp (2013)

Benvenuti a Elysium. Si dovrebbe stare bene a Elysium, insomma sei lontano dalla mefitica e sovraffollata atmosfera della terra, parli francese con i tuoi bambini che, belli, biondi e accecanti, ingurgitano macarones e rimangono comunque belli, biondi e accecanti. Hai pure costruito Wisteria Lane su una sorta di stazione circolare orbitante, sbattendo in faccia il tuo status suburbano, elitario e sovrastante, a tutti i poveri mentecatti che alzano lo sguardo al cielo in cerca di conforto. Gente che si fa operare da metalmeccanici sotto anfetamine o nel migliore dei casi che esibisce treccine alla Snoop Lion. Cosa manca a Elysium? Ma niente! Hai pure una sorta di doccia pressurizzata che ti guarisce da qualunque malattia (pensa se una cosa così l’avesse avuta Elizabeth Shaw!), insomma che ti manca a Elysium? Chiediamolo a Jodie Foster. Anzi chiedeteglielo voi perché io avrei paura solo a intralciarle la strada mentre porta regali ad altri bambini belli biondi e accecanti. Se «Betty Draper looking pissed» è stato un trend topic per anni non so cosa aspettarmi dopo l’uscita in sala di Elysium di Neill Blomkamp (neanche a crederci quello di District 9) Insomma Jodie ma che ti hanno fatto? Te ne stai lì seduta con le mani strette, incazzatissima, con la paresi facciale, la bocca all'ingiù, le sopracciglia aggrottate e quel taglio di capelli pronto a vincere le primarie dei repubblicani. Jodie, dico davvero, c’è un motivo per cui sei così assatanata? OK, poi arriverà Matt Damon in versione pornoattore, morente e pimpato con un esoscheletro e un hard disk nel cranio (sic!) a disturbare la tua suburbia perfetta ma prima perché ce l’hai così su con tutti? Ce lo vuoi dire?