Già dai titoli di testa Ed Wood (1994) si
annuncia come la personale discesa di Tim Burton nella «Hollywood Babilonia», un territorio alieno e composito,
dove ciò che è altro da sé è nero, buio, non esiste se non inquadrato (anche
male, malissimo) da una telecamera. La meravigliosa ouverture di Howard Shore accompagna la telecamera attraverso
lapidi che portano i nomi dei membri del cast (in fondo anche Anger
in Holly Baby dava il via al suo
magistrale racconto da un cimitero) e poi su per un cielo invaso da navicelle
aliene cheap che sorvolano la scritta
«HOLLYWOOD» sulle
colline di Los Angeles, e ancora giù in un lago, dove si agita una
piovra gigante, eloquente simbolo della cultura che sarà dei b-movie. Neanche a
dirlo tutto filmato in un evocativo bianco e nero. Così Burton introduce lo
spettatore nella colonia di Hollywood, in cui lo sguardo del regista di Beetlejuice non poteva che andare alla
ricerca spasmodica di quello entusiasta, ridondante e surreale del «peggior
regista di tutti i tempi», Edward Davis Wood Jr.
- detto “Ed” come a voler sottolineare il fare lesto del suo cinema -
interpretato da un iconico Johnny Depp.
La figura del cineasta universalmente riconosciuto come il propulsore della
cultura dei b-movie ci è restituita da Burton con un’allure surreale, immaginifica ed epica. Seguiamo Ed Wood dai primi tentati
di sfondare a teatro fino alla realizzazione del suo capolavoro più sghembo,
giustapposto e meraviglioso Glen or Glenda, in cui lo stesso Ed
Wood – crossdresser entusiasta,
amante in particolare dei maglioni d’angora – elaborò la sua narrazione (assai)
liberamente ispirata alla vicenda di Christine Jorgensen, una delle prime
persone ad aver eseguito un cambio di sesso completo. La pellicola, da sempre stigmatizzata,
si annovera, per la sua peculiare sintassi cinematografica, per gli inserti nonsense di repertorio (come scene di
guerra o riprese di bisonti sovrapposte al girato da Ed Wood) e per i dialoghi
idiosincratici, come esempio di operare surrealista. Glen or Glenda segna anche l’ingresso di Bela Lugosi (nell’interpretazione
sul viale del tramonto di Martin Landau che per questo ruolo vinse il premio
Oscar) nella folle crew di Wood. In Ed Wood il giovane cineasta incontra una
delle vestigia più oscure e intellettuali della colonia, l’interprete iconico
del conte Dracula (nonché grande amatore di stelle hollywoodiane) in una delle
sue flânerie attraverso la città
degli orpelli.
sabato 30 giugno 2012
sabato 16 giugno 2012
Eterno ritorno e visione solipsistica: Le regole dell'attrazione di Roger Avary (2002)
Lo stesso Bret Easton Ellis ha voluto precisare che la riduzione del suo Le regole dell’attrazione realizzata da Roger Avary è l’unica, fra le trasposizioni cinematografiche dei
suoi libri, a essere stata in grado di cogliere la sensibilità del suo lavoro.
Personalmente non riesco a immaginare altro volto che il faccione fresco di
scrub di Christian Bale per Patrick Bateman ma sono convinto che il merito del
regista di Killing Zoe sia davvero quello
di aver compreso e interpretato la natura dei personaggi creati da Bret Easton
Ellis. Sean Bateman (James Van Der Beek), Lauren Hynde (Shannyn Sossamon) e Paul Denton (un
giovanissimo ed efebico Ian Somerhalder) rappresentano una generazione ectoplasmatica,
figlia della gravidanza extrauterina del boom economico. Una generazione che ha
già imparato a celare se stessa sotto quella superficie minimale che diventerà poi
un’arma (negli anni Novanta del rampantismo bipolare di American Psycho) e infine una prigione di collagene (nel
fine-impero di Imperial Bedrooms).
Avary nella realizzazione de Le regole dell’attrazione fa precise scelte stilistiche (che hanno reso il film un
vero oggetto di culto) e lavora sulla rappresentazione circolare del tempo. Il The end of the world party apre e chiude
il racconto e la regia è impostata sulla filosofia analogica del «rewind-stop-play».
Alla base della visione di Avary c’è l’eterno ritorno postmoderno associato al
culto dell’home video e all’amore per il frammento e l’intertestualità. È questo
che rende Le regole dell’attrazione così
fedele allo spirito del minimalismo di Bret Easton Ellis e ne fa un manifesto
generazionale di valore storico.
mercoledì 13 giugno 2012
Capitalismo, dialogo e rappresentazione alla deriva: Cosmopolis di Don DeLillo (2003)
«DeLillo il profeta», «DeLillo l’aveva previsto e
raccontato»
e la più ben nota dichiarazione «il movimento Occupy Wall Street è nato
mentre giravamo il film!» rilasciata da David Cronenberg, sono tre tagline perfette per l’immaginifica
riduzione cinematografica del romanzo di Don DeLillo Cosmopolis, ma non
rendono giustizia all’opera dell’autore di Americana.
Le centottanta pagine del romanzo descrivono quale sia l’unica via possibile
del narrare oggi. Leggendolo, il lettore partecipa alla deriva del protagonista
Eric Packer, sente di fare parte di
quella matrice digitale che è il capitalismo descritto dalla consulente teorica
Vija
Kinsky (declinazione delle teorie
elaborate da Kevin Kelly), comprende che la flânerie
attraverso i diversi piani temporali e le percezioni ontologiche di Eric sono
ormai l’unico modo di descrivere la realtà.
Il libro, non a caso,
è dedicato a Paul Auster che insieme a DeLillo partecipò
all’antologia-manifesto Schegge d’America
(1997). Non a caso, in quell’occasione, i due autori prepararono due
stranianti racconti basati sul dialogo, due sceneggiature teatrali che vedevano
nel naturalistico confronto verbale tra i protagonisti la giusta chiave per
realizzare una nuova forma di narrativa alla deriva, in grado di esistere e
convivere con i nascenti nuovi media. In Cosmopolis,
a sei anni dall’uscita dell’antologia Avant-Pop di Larry McCaffery, la via è
ancora quella. DeLillo incarna nel giovane direttore d’azienda, il ventottenne
Eric Packer, il paradigma narrativo, il perno di diversi punti di vista che nel dialogo trovano il modo di descrivere la realtà
contemporanea: fagocitante, caleidoscopica, sensuale, violenta e franta. Eric è
il discendente scellerato di Leopold Bloom, il figlio di una deriva gen(er)ica
che ha mutato il suo DNA raggiungendo un livello di sconvolgimento della percezione
della realtà senza ritorno. Eric è un organismo post-sessuale (probabilmente uno
dei motivi per cui David Cronenberg si è innamorato di lui), l’unico modo che
ha per introdursi nell’altro è il dialogo, egli confronta la sua visione su tempo
e possesso con tutti i personaggi che vengono a contatto con lui durante l’arco
della giornata: il capo della sicurezza Torval, la già citata Vija Kinsky (la cui
voce e il cui sguardo superano la pagina per raggiungere i sensi del lettore,
allo stesso tempo terrorizzandolo e seducendolo), la giovane moglie Elise
(l’unica opportunità di ancorarsi a quel che rimane del reale, puntualmente
fagocitata da Eric), la mercante d’arte Didi Fincher, la consulente finanziaria
Jane Melman e la guardia del corpo dai tratti ancestrali Kendra Hays.
lunedì 11 giugno 2012
W. E. - Edward e Wallis di Madonna (2011)
di Lorenzo Peroni
W. E., al contrario di quanto annunciato, non è un brutto film: è un film imperfetto che risente della voglia di Madonna di dimostrare di essere una regista credibile. Il che è difficile nel mondo machista di Hollywood anche per le brave registe di professione, per quelle che ci arrivano già tacciate col marchio di “diva” è un’impresa sostanzialmente impossibile. Succede, sono cose della vita (vanno prese un po’ così). Madonna ci prova, piena di energia e buona volontà: fa tenerezza. Lo storia è nota. Le immagini si dipanano attraverso carrellate, soggettive, camera a mano… Madonna ci mette di tutto per cercare di convincerci che conosce il mezzo e che sa destreggiarsi in maniera agile tra i modi del fare cinema: il risultato è una sorta di pastiche linguistico di quelli che normalmente piacciono tanto ai festival cinematografici che così male l’hanno accolto. Se sei brutto ti tirano le pietre, sei sei bello idem insomma. La coerenza sintattica ne risente, ma nel complesso l’energia e il coinvolgimento che traspare tende a prevalere. Ci sono delle forzature (i parallelismi tra le due Wallis) e delle freddezze (le passerelle catalografiche di vestiti, tessuti, complementi d’arredo, gioielli, oggetti suntuari, etc.), ma anche delle tenere dolcezze -come il ballo della vecchia Wallis- e la citazione a From Here to Eternity che danno al film un valore di racconto caldo e accogliente, a volte ironico (nella stizza della Wallis di ieri verso quella di oggi) e drammaticamente coinvolgente (nella bellissima scena iniziale con Andrea Riseborough riversa a terra in una livida nudità). Un po’ biopic e un po’ romance, un po’ estetico e un po’ ruvido, un po’ riuscito e un po’ no. Sicuramente (?) sincero.
W. E., al contrario di quanto annunciato, non è un brutto film: è un film imperfetto che risente della voglia di Madonna di dimostrare di essere una regista credibile. Il che è difficile nel mondo machista di Hollywood anche per le brave registe di professione, per quelle che ci arrivano già tacciate col marchio di “diva” è un’impresa sostanzialmente impossibile. Succede, sono cose della vita (vanno prese un po’ così). Madonna ci prova, piena di energia e buona volontà: fa tenerezza. Lo storia è nota. Le immagini si dipanano attraverso carrellate, soggettive, camera a mano… Madonna ci mette di tutto per cercare di convincerci che conosce il mezzo e che sa destreggiarsi in maniera agile tra i modi del fare cinema: il risultato è una sorta di pastiche linguistico di quelli che normalmente piacciono tanto ai festival cinematografici che così male l’hanno accolto. Se sei brutto ti tirano le pietre, sei sei bello idem insomma. La coerenza sintattica ne risente, ma nel complesso l’energia e il coinvolgimento che traspare tende a prevalere. Ci sono delle forzature (i parallelismi tra le due Wallis) e delle freddezze (le passerelle catalografiche di vestiti, tessuti, complementi d’arredo, gioielli, oggetti suntuari, etc.), ma anche delle tenere dolcezze -come il ballo della vecchia Wallis- e la citazione a From Here to Eternity che danno al film un valore di racconto caldo e accogliente, a volte ironico (nella stizza della Wallis di ieri verso quella di oggi) e drammaticamente coinvolgente (nella bellissima scena iniziale con Andrea Riseborough riversa a terra in una livida nudità). Un po’ biopic e un po’ romance, un po’ estetico e un po’ ruvido, un po’ riuscito e un po’ no. Sicuramente (?) sincero.
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