lunedì 30 aprile 2012

M. Butterfly di David Cronenberg (1993)


Una Cina oscura, un dedalo di strade affollate, di ambienti stracolmi di oggetti, una terra che desidera celare all’occidentale, al «diavolo bianco», la propria natura (e le proprie intenzioni) e per farlo utilizza il complesso immaginario forgiato da millenni di storia a sua disposizione. In questo setting misterico David Cronenberg costruisce il suo M. Butterfly, con il quale si confronta con il genere melò. Genere, come sappiamo, amato da registi Avant-Pop quali John Waters, David Lynch e Pedro Almodovar che ne hanno portato all’estremo la capacità di mostrare «la morte al lavoro». Cronenberg, che qui gira per la prima volta fuori dal Canada (fatta eccezione per alcune scene girate in studio a Toronto), in Cina, a Parigi e a Budapest, prende in mano il soggetto della pièce teatrale M. Butterfly del drammaturgo David Henry Hwang (sceneggiatore del film) che a sua volta ha realizzato la sua opera su un fatto di cronaca: un diplomatico francese imputato per spionaggio a causa del rapporto con un’attrice dell’Opera di Pechino – dalla quale egli si convinse di avere avuto un figlio - rivelatasi in tribunale essere un uomo. Cronenberg, come fu ne La zona morta, non lavora su un soggetto elaborato e scritto in prima persona ma accentuandone le caratteristiche più vicine alla sua poetica ne fa un film del tutto coerente con la sua Opera. In questo caso il regista de Il pasto nudo decide di ridurre la parte della storia dedicata allo spionaggio per focalizzare (e accentuare) la storia fatale, ambientata alle porte del Sessantotto, tra René Gallimard (Jeremy Irons) e Song Liling (John Lone), primadonna dell’Opera di Pechino. In essa Cronenberg vede la possibilità di riscrivere e ribaltare un’opera simbolo della cultura occidentale che, come spiega Song Liling a un sorpreso Gallimard durante il loro primo incontro, non avrebbe lo stesso appeal se nella storia fosse stata una donna orientale ad abbandonare e tradire un uomo occidentale provocandone la morte. Cronenberg attraverso una nuova e sensuale gestualità contemporanea riscrive, meglio dire muta, i connotati dell’opera di Puccini creandone una nuova, oscura, versione Avant-Pop.

Song Liling: una proiezione.
La scelta di donare alla pellicola le tinte del melò è utile a Cronenberg per tracciare il sentiero trans-sessuale intrapreso a livello inconscio da René Gallimard. Egli alla ricerca del perfetto femminile (una ricerca che ci richiama le prime pellicole del regista canadese, soprattutto Crimes of the future) finirà per inglobare l’immagine amata, la Butterfly dell’opera pucciniana, in sé.
Tutto il percorso di Gallimard (e la riuscita del piano di Song Liling che circuito l’uomo ne carpirà informazioni da passare al governo maoista) è basata sull’interpretazione freudiana dell’inconscio, soprattutto nelle sue manifestazioni di proiezione e rimozione. Gallimard, scopriamo poco prima del finale, quando si confronterà con l’uomo che l’ha circuito, non è innamorato di Song Liling in quanto individuo ma come proiezione di un immaginario sul reale, egli definisce la donna amata «perfetta» perché nega a se stesso i reali caratteri fisici della donna, li rimuove, come «il seno da ragazzo» o la grande bugia della penetrazione attraverso la quale Song Liling gli farà credere addirittura di aver avuto un figlio. Di fronte alla nuda verità (letteralmente), nel furgone che lo porterà in prigione, egli è furioso perché essa ha osato palesarglisi davanti, impendendogli ulteriormente di nutrirsi della sua proiezione. Per Gallimard l’ultimo passo possibile è quello di consustanziare i tratti dell’amata donna-proiezione in sé, ritrovarli degradati e imperfetti sul suo volto che egli stesso pitta durante la farsa rappresentata per i compagni carcerati. Di fronte, nello specchio che tiene fra le mani, ora c’è una creatura baconiana, rosa dalla delusione e dall’infrangersi del suo sogno sessuale, una creatura cui non rimane che la morte per identificarvisi completamente.

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